In data 25 giugno 2015 è entrato in vigore il D. Lgs. 15 giugno 2015, n. 81 (c.d. T.U. o Codice dei contratti di lavoro): trattasi di uno dei decreti attuativi del c.d. Jobs Act (Legge 10 dicembre 2014, n. 183), che – unitamente a quelli precedentemente pubblicati [1] – dovrebbero andare a ridisegnare il mercato del lavoro italiano, come auspicato dal Governo Renzi.

Le disposizione del suddetto decreto innovano diversi aspetti dei contratti di lavoro e recano una nuova disciplina in materia di mansioni (art. 2103 c.c.). Di seguito si fornisce una prima sintesi delle predette novità.

Abolite le CO.CO.PRO. (collaborazione coordinate a progetto) dal 1° gennaio 2016

La disciplina del lavoro a progetto contenuta nel c.d. decreto Biagi [2] resterà vigente solo per la regolazione dei co.co.pro. già in atto al 25 giugno 2015; successivamente i nuovi rapporti di collaborazione coordinata non potranno più essere formalizzati come contratti a progetto ma semplicemente come collaborazioni coordinate e continuative ex art. 409 c.p.c. (quindi senza progetto e senza necessità di un termine finale).

Per i contratti a progetto già in essere è consentita la proroga, se funzionale alla realizzazione del progetto, tale da estendere il contratto anche oltre la data del 25 giugno 2015. In alternativa, si potrà risolvere il contratto a progetto in scadenza per poi stipulare, con il medesimo lavoratore, un nuovo contratto di collaborazione coordinata e continuativa come consentito dalle nuove regole.

In ogni caso, sia al contratto a progetto prorogato (stipulato prima del 25 giungo 2015), sia al nuovo contratto di collaborazione (stipulato dopo il 25 giugno 2015 ma entro il 31 dicembre 2015) – qualora si estendessero oltre il 1° gennaio 2016 – si applicherà la disciplina del lavoro subordinato, se si tratta di collaborazioni che si concretano in “prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative, e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”.

Alla luce di quanto sopra si consiglia – quanto meno in linea generale – la gentile Clientela di NON stipulare contratti di co.co.co., in quanto le nuove disposizioni rendono ancor più semplice la riconduzioni di tali rapporti nell’alveo di contratti di lavoro subordinato (con i conseguenti obblighi civilistici verso il collaboratore/lavoratore per differenze retributive e potenziali sanzioni irrogabili da parte del Ministero del Lavoro).

La riconduzione al lavoro subordinato della collaborazione “organizzata” è esclusa soltanto in 4 ipotesi:

  • le collaborazioni per le quali accordi o contratti collettivi nazionali di lavoro prevedono discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo, in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative del relativo settore;
  • le collaborazioni nell’esercizio di professioni intellettuali per le quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi professionali (dunque le professioni c.d. ordinistiche prestate, ad esempio, da avvocati, consulenti del lavoro, commercialisti, architetti, geometri, ecc.);
  • le attività prestate da amministratori, sindaci o comunque componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società;
  • le prestazioni rese a fini istituzionali in favore delle associazioni e società sportive dilettantistiche.

Abolite le ASSOCIAZIONI IN PARTECIPAZIONE CON APPORTO DI SOLO LAVORO

Il decreto ha innovato la nozione di associazione in partecipazione modificando l’art. 2549 c.c., e stabilendo che se l’associato è una persona fisica il suo apporto “non può consistere, nemmeno in parte, in una prestazione di lavoro”. Dunque in base alla nuova disciplina sono vietati i contratti di associazione in partecipazione nei quali l’apporto dell’associato persona fisica consiste, in tutto o in parte, in una prestazione di lavoro, mentre quelli già in essere rimangono in vigore “fino alla loro cessazione”.

La nuova disciplina delle MANSIONI

È stato fortemente modificato l’art. 2103 del codice civile: tale disposizione prevedeva che il prestatore di lavoro dovesse essere adibito alle mansioni per le quali era stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore successivamente acquisita ovvero alle mansioni “equivalenti alle ultime effettivamente svolte”. Inoltre, nel caso di assegnazione a mansioni superiori per il periodo indicato dai contratti collettivi (in ogni caso non superiore a 3 mesi) il lavoratore aveva diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta e l’assegnazione diveniva definitiva, tranne che nell’ipotesi di sostituzione di un lavoratore con diritto alla conservazione del posto. La giurisprudenza maggioritaria interpretava tale norma rilevando l’illegittimità della modifica delle mansioni tutte quelle volte in cui il datore di lavoro impegnava il dipendente in attività che, pur essendo in astratto ascrivibili al livello di inquadramento delineato dal contratto collettivo, di fatto erano idonee a compromettere la professionalità acquisita, nonché lo svolgimento e l’accrescimento delle capacità professionali del dipendente.

Il nuovo art. 2013 c.c. stabilisce, invece, che il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito, “ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte”.

Il decreto – innovando totalmente la materia – ha inoltre previsto la possibilità di modificare le mansioni del lavoratore anche in via peggiorativa: è infatti previsto che in caso di “modifica degli assetti organizzativi aziendali” che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale.

Questa è una delle innovazioni più interessanti della riforma, in quanto si attribuisce al datore di lavoro un potere esercitabile in modo unilaterale, prescindendo quindi dal consenso del lavoratore (ovviamente tale facoltà è strettamente ancorata alla sussistenza delle modifiche agli assetti organizzativi destinate ad incidere sulla posizione del dipendente, non essendo possibile modificare unilateralmente e in modo peggiorativo le mansioni del lavoratore in assenza di tali presupposti).

In tema di “variazione degli assetti organizzativi”, può affermarsi che tale fattispecie ricorre quando la variazione venga realizzata con lo scopo di una più economica gestione dell’impresa, e decisa non semplicemente per un incremento del profitto, ma per far fronte a sfavorevoli situazioni, non meramente contingenti, influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva ed imponenti un’effettiva necessità di riduzione dei costi.

È prevista inoltre la facoltà per la contrattazione collettiva (non solo nazionale, ma anche aziendale)  di indicare ulteriori ipotesi in cui possono essere assegnate mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore.

In ogni caso il mutamento di mansioni in pejus deve essere comunicato per iscritto e che “il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa” (quali l’indennità di maneggio denaro, l’indennità di disagiata residenza, etc.)

È inoltre prevista la possibilità nelle c.d. sedi protette (sede sindacale, avanti la DTL, commissioni di certificazioni) di stipulare accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria legale, del livello di inquadramento e della retribuzione. Dunque gli accordi in questione – a differenza del demansionamento unilaterale autorizzato dal nuovo art. 2013 c.c. – consentono la riduzione del livello di inquadramento e della retribuzione del lavoratore.

Nel caso di assegnazione del lavoratore a mansioni superiori il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta e tale assegnazione diviene definitiva, salva diversa volontà del lavoratore, dopo il periodo fissato dai contratti collettivi o, in mancanza, dopo 6 mesi continuativi (sempre se non vi è stata la sostituzione di un lavoratore assente) (in precedenza il periodo era di 3 mesi).

Le modifiche al LAVORO ACCESSORIO

Anche il lavoro accessorio (con pagamento per mezzo dei c.d. voucher) è stato oggetto di rivisitazione normativa e operativa da parte della riforma. Di seguito i punti salienti dell’innovata disciplina.

Per prestazioni di lavoro accessorio si intendono quelle attività lavorative che non danno luogo, con riguardo alla totalità dei committenti, a compensi superiori a € 7.000 netti (pari a € 9.333 lordi) in un anno civile, rivalutati ogni anno in base all’indice ISTAT. Fermo il limite complessivo di € 7.000 nei confronti dei committenti imprenditori o professionisti, le attività possono essere svolte a favore di ogni singolo committente per compensi non superiori a € 2.000 netti (pari a € 2.666 lordi) (elevati a € 3.000 per percettori di prestazioni integrative del salario o sostegno al reddito). Per le altre tipologie di committenti (privati) sembra dunque non sussistere il limite di € 2.000 euro ma solo quello di € 7.000.

Committenti imprenditori e professionisti ora acquistano solo con modalità telematiche tramite il sito dell’INPS, uno o più carnet di buoni orari, numerati progressivamente e datati, per prestazioni accessorie il cui valore nominale sarà fissato con un decreto ministeriale (il valore nominale del buono orario è attualmente fissato in € 10, con valore netto per il lavoratore di € 7,50). Vi è già stato un chiarimento [3] in forza del quale i buoni acquistati presso le tabaccherie autorizzate assolvono all’obbligo del “canale telematico”.

 

I committenti imprenditori o professionisti che ricorrono a prestazioni occasionali di tipo accessorio sono tenuti, prima dell’inizio della prestazione, a comunicare alla DTL competente, attraverso modalità telematiche, ivi compresi sms o posta elettronica, i dati anagrafici e il codice fiscale del lavoratore, indicando, altresì, il luogo della prestazione con riferimento ad un arco temporale non superiore ai 30 giorni successivi (al momento la disciplina è sospesa e rimangono in vigore i consueti canali, ossia il sito dell’INPS).

La validità del voucher, ai fini della pagabilità presso gli uffici postali e presso gli altri canali di gestione del servizio “voucher’” al momento non sembra subire variazioni, quindi:

  • 24 mesi dal momento dell’emissione per i voucher cartacei INPS e Poste Italiane;
  • 12 mesi dal momento dell’emissione per i voucher distribuiti dalla rete tabaccherie abilitate e Banche popolari.

Il prestatore accessorio percepirà il proprio compenso dal concessionario solo dopo l’accreditamento dei buoni da parte del beneficiario della prestazione. Il compenso è esente da qualsiasi imposizione fiscale e non incide sullo stato di disoccupato o inoccupato del prestatore di lavoro accessorio.

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[1] D.L. 34/2014 (recante modifiche in materia di contratto a termine, DURC, contratti di solidarietà), D. Lgs. 22/2015 (recante il riordino degli ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione involontaria), D. Lgs. 23/2015 (introducente il c.d. contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti), D. Lgs. 80/2015 (introducente notevoli modifiche al T.U. sulla maternità e paternità).

[2] artt. da 61 a 69-bis, D. Lgs. 276/2003.

[3]  In relazione alla convenzione siglata da F.I.T. (Federazione Italiana Tabaccai) con l’INPS.

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