Negli ultimi quattro anni, in Italia, c’è stato un dibattito politico e sociale costante riguardo al tema del c.d. “salario minimo”, con la presentazione di diverse proposte di legge sul tema.

In questo anno 2023 l’attenzione su questo argomento è cresciuta notevolmente, culminando il 30 giugno scorso con la presentazione dell’ultima proposta di legge da parte delle opposizioni di centro-sinistra (ad eccezione di Italia Viva). Tale proposta stabilisce un salario minimo lordo di 9 euro all’ora, con l’obiettivo di proteggere i lavoratori che attualmente guadagnano meno e spesso non sono coperti da contratti collettivi.

Proviamo a fare il punto della situazione.

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Che cos’è il salario minimo?

Il salario minimo, secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), rappresenta il livello minimo di retribuzione che i datori di lavoro devono pagare ai propri dipendenti per un determinato quantitativo di lavoro (orario, giornaliero, settimanale o mensile).

Scopo principale del salario minimo è combattere la povertà garantendo una retribuzione proporzionata al lavoro svolto. Lo Stato interviene nella negoziazione collettiva per limitare la determinazione libera dei salari da parte del mercato e aumentare le retribuzioni per coloro che si trovano nella parte inferiore della scala salariale.

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La situazione in Europa

In tutti gli stati membri dell’Unione europea, esiste una forma di salario minimo. La scelta di determinare il livello minimo del salario tramite la legge o la contrattazione collettiva varia in base alle tradizioni dei sistemi di relazioni industriali nei singoli paesi. Nel “Pilastro Europeo dei diritti sociali” (Raccomandazione (UE) 2017/761 della Commissione, del 26 aprile 2017, sul pilastro europeo dei diritti sociali, paragrafo 6) viene sottolineato il diritto a una retribuzione equa e sufficiente, e sono definiti principi per stabilire il salario minimo. Tuttavia, il Pilastro non stabilisce una soglia minima europea poiché, in base ai Trattati europei, la regolamentazione salariale è di competenza nazionale.

La principale distinzione tra i vari regimi di salario minimo in Europa riguarda il campo di applicazione. Alcuni paesi seguono un regime universale, che si applica a tutti i lavoratori, mentre altri adottano un approccio settoriale, destinato a specifici settori o gruppi di lavoratori. La maggioranza dei paesi segue il primo regime, che è in vigore in 22 dei 28 paesi membri dell’UE. L’Italia è uno dei paesi che adotta un regime settoriale, insieme a Danimarca, Finlandia, Svezia e Austria.

Nel caso dei paesi con regime universale, il livello del salario minimo è generalmente stabilito attraverso la legge, ed è quindi noto come “salario minimo legale” (SML). Negli altri paesi, il salario minimo è spesso determinato attraverso contratti collettivi, eventualmente supportati da meccanismi di estensione legale, come in Italia, ma anche Austria e Finlandia. Anche in paesi con una forte copertura di contrattazione collettiva, il salario minimo può essere utilizzato come strumento aggiuntivo per garantire retribuzioni adeguate.

È bene ricordare che nel giugno 2022 il Parlamento Europeo ha adottato una nuova legislazione sui salari minimi adeguati, che è stata trasformata in una Direttiva adottata dal Consiglio europeo il 4 ottobre 2022. Gli Stati membri hanno tempo quindi fino a ottobre 2024 per incorporare tali disposizioni nella loro legislazione nazionale.

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La situazione in Italia

L’art. 36 della Costituzione stabilisce il diritto di ogni lavoratore “ad una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia una esistenza libera e dignitosa”. Nella Carta Costituzionale pur affermandosi apertamente il diritto ad un salario minimo, non è possibile individuarne una misura concreta. La Costituzione afferma due principi generali, quelli di sufficienza e proporzionalità, ossia che la retribuzione deve essere

  • SUFFICIENTE, ossia tale da assicurare allo stesso ed alla propria famiglia un livello di dignità e di libertà nel contesto sociale;
  • PROPORZIONATA, ossia rispettosa del rapporto tra “qualità e quantità del lavoro” e retribuzione corrisposta.

La scelta della Costituente fu quella di non attribuire espressamente alla legge il compito di stabilire un salario minimo al fine di non ostacolare l’azione sindacale. Nell’impianto Costituzionale, infatti, i contratti collettivi stipulati a norma dell’art. 39 (vale a dire dalle organizzazioni sindacali registrate e dotate di personalità giuridica, avrebbero dovuto avere efficacia erga omnes, vale a dire efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto stesso si riferisce.

La mancata attuazione dell’art. 39 (dovuta al fatto che ad oggi non esiste in Italia un sindacato registrato, né, quindi, dotato di personalità giuridica) aprì il problema dei tanti lavoratori che non potevano beneficiare dell’applicazione di un contratto collettivo in quanto il datore di lavoro, non affiliato ad alcuna associazione datoriale, non era giuridicamente tenuto alla relativa applicazione.

La giurisprudenza, tuttavia, nel corso del tempo ha posto la diretta percettività dell’art. 36 della Costituzione, in maniera del tutto svincolata dall’art. 39. Nel caso della mancanza di una retribuzione pattuita dalle parti, è il giudice che la determina in esecuzione dell’art. 2099 c.c., ricavandola proprio dai minimi tabellari di cui ai contratti collettivi (valore, peraltro, utilizzato anche dal legislatore in riferimento di minimi contributivi, ai valori minimi per le gare di appalto, ecc.).

Attualmente vi è una proposta di legge che tenta di superare questa situazione. La proposta di legge del 30 giugno 2023, presentata dalle opposizioni di centro-sinistra, prevede infatti un salario minimo per legge di 9 euro (9 euro netti per nella proposta del PD, da incrementarsi secondo gli indici Istat; 9 euro lordi nel DdL del M5S, da incrementarsi secondo l’indice IPCA).

Questo importo dovrebbe essere esteso non solo ai lavoratori subordinati, ma anche a quelli nella para-subordinazione e nel lavoro autonomo. La discussione generale è stata avviata il 27 luglio alla Camera, ma la maggioranza di governo ha richiesto di posticiparla fino al 29 settembre successivo, quando verrà effettuata la votazione.

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Cosa dice la giurisprudenza

Le recenti decisioni della Corte di Cassazione (n. 27711, n. 27769, depositate il 2 ottobre 2023 e n. 28320, n. 28321 e n. 28323 del successivo 10 ottobre 2023), nel contesto dell’articolo 36 della Costituzione, sollevano la questione se le retribuzioni previste nei contratti collettivi siano adeguate ai principi di sufficienza e proporzionalità stabiliti dalla carta costituzionale. La Corte ha sostanzialmente affermato che il CCNL non sempre risponde a tali requisiti costituzionali, obbligando il giudice a valutare alcuni aspetti, che possono così sintetizzarsi:

  • soglia di povertà che, annualmente, viene calcolata dall’ISTAT sulla base del c.d. “paniere” di servizi e beni essenziali finalizzati al sostentamento (a titolo esemplificativo, in Veneto, tale importo è registrato nel 2022 – per nuclei familiari costituiti da 1 solo componente in età lavorativa – tra circa € 1.024, € 964 ed € 913, a seconda che si risieda in centro di aree metropolitane (ossia con oltre 50.000 abitanti), periferie di area metropolitana o comunque comuni con oltre 50.000 abitanti, ovvero comuni fino a 50.000 abitanti);
  • importo della indennità di disoccupazione, o meglio, della NASPI (€ 1.361 per il 2022 ed € 1.471 nel 2023);
  • importo del reddito di cittadinanza (pari a € 350 mensili per 12 mensilità; criterio, peraltro, elaborato dal Tribunale di Bari con la sentenza n. 2720 del 13 ottobre 2023);
  • retribuzione prevista in altri contratti collettivi di settori affini;
  • indicatori economici e statistici suggeriti dalla Direttiva UE n. 2022/2041 sui salari adeguati, che invita gli Stati dell’Unione a introdurre norme legali finalizzate a garantire il soddisfacimento non soltanto dei bisogni essenziali come il vitto e l’alloggio, ma anche la partecipazione ad attività di natura culturale, sociale ed educativa. Da ciò discende come la Direttiva dia valore sia al potere di acquisto delle retribuzioni, ma anche al livello generale dei salari ed alla loro parcellizzazione tra i lavoratori.

Inoltre, la Corte sottolinea che la discrezionalità decisionale del giudice nel discostarsi dalla retribuzione prevista dal CCNL deve essere esercitata con prudenza e adeguata motivazione.

In ordine alla questione del discostamento dalla retribuzione prevista dal CCNL, il Tribunale di Milano, con la sentenza del 21 febbraio 2023, ritiene che la discrezionalità decisionale del giudice, in presenza di una definizione retributiva decisa dalla contrattazione collettiva, debba essere utilizzata “con la massima prudenza, cura e attenzione e, comunque, con una adeguata motivazione”, in quanto difficilmente si è in grado di valutare le esigenze politiche, economiche e sindacali che sono sottintese all’intero assetto concordato dalle parti sociali durante il confronto che ha portato alla stipula del CCNL.

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E l’ispettorato del lavoro cosa può fare?

La riconduzione della retribuzione ad un salario superiore, magari contenuto in altro CCNL di settore affine, può, quindi, essere effettuata dal giudice di merito: ma, detto questo, una analoga operazione può essere effettuata da un ispettore del lavoro nell’ambito di una attività programmata dal proprio Ufficio?

Secondo il TAR della Lombardia (sentenza n. 2046 del 4 settembre 2023) no.

Con tale decisione è stata, infatti, annullata una disposizione ex art. 14 del D. Lgs. 124/2004, dell’Ispettorato territoriale del Lavoro di Como-Lecco, con la quale (nell’ambito del settore della vigilanza privata) era stato imposto al datore di lavoro di applicare, al posto del CCNL dallo stesso prescelto, un altro CCNL di settore affine, migliore sotto l’aspetto retributivo. Secondo il TAR, in mancanza di una norma che imponga un salario minimo, non è sindacabile, la determinazione aziendale tesa all’applicazione di un determinato contratto.  Ora, tale decisione, almeno per quel che riguarda i giudici, appare superata dalle decisioni della Cassazione sopra riportate, ma in un contesto variabile come questo, non è detto che si assista all’ennesimo “ribaltone” giurisprudenziale…

La questione di adeguare la retribuzione a un livello superiore, se necessario, può essere affrontata dal giudice di merito, come indicato nelle recenti sentenze della Corte di Cassazione. Tuttavia, il TAR della Lombardia ha annullato una disposizione che imponeva al datore di lavoro di applicare un diverso CCNL di settore, ritenendo che in mancanza di una norma che imponga un salario minimo, la determinazione aziendale sia insindacabile. Un intervento normativo che stabilisca un salario minimo per legge potrebbe essere oggetto di valutazione da parte del giudice, soprattutto se non include disposizioni per proteggerlo dall’inflazione.

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IN DEFINITIVA

In ogni caso, la questione del salario minimo rimane una questione complessa e varia da paese a paese in base alle leggi e alle tradizioni del sistema giuridico locale. La risposta che ogni stato, compresa l’Italia, decida di adottare non potrà non considerare la presenza o l’assenza di disposizioni che proteggano il salario minimo da fenomeni come l’inflazione. Senza tali salvaguardie, il valore del salario minimo potrebbe erodere nel tempo, rendendo eventualmente necessario il ricorso al giudice per valutare se il salario minimo rimane congruo e adeguato.

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